Aggressività e rabbia: conoscerle per gestirle
Dott.ssa Giuliana Bitelli
INTRODUZIONE
Questo lavoro nasce dall’incontro tra un gruppo di educatrici di un nido, convenzionato con l’amministrazione comunale di una città del nord Italia, e la coordinatrice pico-pedagogica del nido stesso, impegnata a gestire e ad affrontare ogni questione inerente lo svolgimento del ruolo educativo previsto dal regolamento e dal progetto educativo del nido.
Le educatrici erano coinvolte in un momento di grande difficoltà, in quanto il gruppo di bambini con cui operavano, era “contagiato” da una forte carica aggressiva che manifestava sopratutto con morsi e graffi. I bambini soffrivano di questo clima, sia coloro che subìvano gli attacchi, sia quelli che producevano gli assalti, e sembrava che le educatrici, prese dalla routine quotidiana e dalla responsabilità di seguire i ritmi giornalieri, e garanti della cura dei bisogni fondamentali (pasti, cambi igienici e sonni), non avessero tempo di riflettere, nè individualmente nè in gruppo, per arrivare ad una soluzione del problema che stava diventando imponente.
Inoltre le famiglie chiedevano conto di ciò che succedeva, ma le educatrici non erano riuscite ad ideare una strategia di comunicazione con i genitori e i nonni al ritiro del bambino, dando invece l’impressione di essere preda di un fenomeno collettivo fuori del loro controllo.
Le educatrici erano in prima linea e soffrivano anch’esse della situazione: sia perchè l’aggressività “contagiava” anche loro, sia perché erano esposte con le famiglie a rendere conto di qualcosa che in quel momento rappresentava, loro malgrado, una gestione inadeguata, sia perché si rendevano conto che mettevano in difficoltà anche, di riflesso, la titolare del nido in quanto responsabile “legale” della vita educativa della struttura. In ultima analisi, ma non per importanza, si sentivano esse stesse inefficaci e la loro autostima iniziava a vacillare.
Le altre figure professionali (cuoca, colf, titolare) erano richieste di aiutare le educatrici e intervenire in urgenza con bambini e genitori, ma in modo disorganizzato e senza un progetto globale a monte.
La titolare, dal canto suo, aveva filo da torcere per tamponare interventi spaventati dei genitori, e per sventare ritiri di bambini già inseriti o rinunce a nuove iscrizioni.
Sembrava dunque che tutta la struttura nel suo complesso fosse sofferente, e stesse richiedendo un urgente intervento di risanamento e rigenerazione.
La proposta di trovare, all’interno della giornata lavorativa, un tempo di pausa dalle azioni convulse della quotidianità e del rispetto dei ritmi giornalieri, di riflessione sul da farsi e sul significato dell’aggressività di grupppo, le ha trovate del tutto concordi e collaborative. Il momento della nanna dei bambini, dalle 13,30 alle 15,10, è stato identificato come il migliore spazio per isolarsi e concentrarsi in una attività formativa di scambio, confronto, sfogo, e di riflessione.
Si è iniziato così, in sinergia tra tutte le figure professionali presenti al nido, a svolgere un programma formativo che avesse come obiettivo fondamentale non tanto e non solo la soluzione concreta e il superamento della crisi relazionale del gruppo intero, bambini-educatrici-direzione-famiglie, ma la messa a punto di una strategia che facesse conoscere il fenomeno a tutto il gruppo professionale del nido, e permettesse alle educatrici di riprendere fiducia in se stesse.
La responsabile psicopedagogica, in consonanza con la titolare, ipotizzava infatti che la soluzione concreta della crisi acuta, la protezione dei bambini dalle azioni aggressive, l’individuazione di iniziative efficaci per prevenire e sciogliere il fenomeno, e la diluizione della tensione con le famiglie, si sarebbero realizzate secondariamente e con scioltezza, se si fosse partiti dal ricostruire la fiducia delle educatrici e il sostegno alla loro professionalità.
È stato perciò proposto e condiviso il seguente programma di lavoro, composto di tre incontri condotti dalla coordinatrice psicopedagogica, ognuno dei quali focalizzato su tre esperienze:
1. le educatrici si comunicano le esperienze di aggressività vissute con il loro gruppo di bambini: portano i racconti e le proprie emozioni riguardo a episodi di aggressività collettiva, oltre che i propri tentativi educativi e riparatori in occasione di una sorta di “contagio”, che ha portato a manifestazioni collettive di aggressività;
2. lo staff educativo conosce l’aggressività da un punto di vista più teorico: effettua un viaggio nel cuore di un comportamento umano dalle molte facce, e all’interno delle sue emozioni associate: rabbia, gioia, potere, angoscia. Solo conoscendo l’aggressività la si può meglio gestire in noi stessi e negli altri;
3. il gruppo professionale coinvolto costruisce una rassegna di interventi e comportamenti educativi in favore di bambini da 12 a 36 mesi inseriti in nido, utili agli educatori per:
◊ prevenire manifestazioni collettive aggressive nocive,
◊ per comunicare con le famiglie in caso di aggressività fra bambini,
◊ per interrompere il contagio aggressivo,
◊ per accompagnare i bambini ad una graduale gestione della propria aggressività rabbiosa.
Qui si riporta di seguito il contenuto delle diverse giornate esperienziali, nella speranza che il lavoro così raccolto costituisca un riferimento per gruppi professionali di educatori, uno spunto per ulteriori riflessioni e sperimentazioni concrete, e un terreno di partenza per costruire una conoscenza collettiva di dinamiche di gruppo molto frequenti.
1.L’ESPERIENZA EMOTIVA DELLE EDUCATRICI CIRCA L’AGGRESSIVITA’ ALL’INTERNO DEL GRUPPO DI BAMBINI DI 12-36 MESI
Inizialmente le educatrici e la titolare hanno avuto la possibilità di condividere insieme alla coordinatrice la propria esperienza a contatto con l’aggressività dei bambini.
Sono emerse, come emozione di partenza, lo stupore di tanta diffusione e pervasività dell’aggressività: questo genera ansia, paura di non sapere gestire una situazione pericolosa per i bambini. Tutti intravedono un sentimento ostile nei confronti degli altri quando si manifesta l’aggressività, quasi che si diffondesse un “contagio” collettivo. Viene osservato che quando un bambino nuovo è inserito nel gruppo di bambini già costituito, si sviluppa una sorta di rifiuto del nuovo da parte dei “consolidati”, un timore di essere dimenticati dall’educatrice, una gelosia diffusa.
Viene segnalato che il morsicare e il graffiare sono gesti aggressivi che le educatrici, oltre che i bambini, patiscono di più, scatenano più ansia: essi infatti colpiscono più direttamente il corpo dell’offeso, vanno a violare più direttamente l’integrità dell’altro, lasciano segni evidenti e inconfutabili; il bambino stesso che li riceve si ricorda più facilmente dell’offesa ricevuta, mentre l’aggressore riceve la conferma del suo gesto in modo molto evidente.
Si riflette che i bambini hanno spontaneamente le loro simpatie e antipatie, e seguono lo stesso meccanismo dell’adulto; non ci sono infatti educatrici “migliori” o “peggiori” che giustifichino lo scatenarsi delle azioni offensive da parte dei bambini. Può capitare che un bambino senta attrazione affettiva verso un’educatrice, mentre verso un’altra senta indifferenza o rifiuto. Da ciò ne può derivare che un bambino possa sentirsi più rilassato o più teso in compagnia dell’educatrice di riferimento, a seconda delle emozioni che il contatto con questa gli suscita. Così capita anche con i compagni di gruppo e di gioco: alcuni stimolano simpatia e piacevolezza, altri diffidenza o antipatia, il che sollecita conseguenze aggressive piuttosto che collaborative.
Una educatrice porta un contributo importante: rileva che quando lei stessa è satura di emozioni, di pensieri, di obiettivi da raggiungere, si sente non pienamente disponibile ad affrontare il gruppo dei bambini quand’anche fossero calmi e rilassati. Quando poi il gruppo è esuberante di episodi bellicosi, la saturazione emotiva le sale d’improvviso mettendola nelle condizioni di sentirsi respingente e non idonea a reggere nuovi episodi simili. Si crea allora una sorta di gabbia: da una parte la responsabilità nei confronti di bambini, famiglie e direzione istituzionale, dall’altra l’impossibilità momentanea a gestire efficacemente una situazione acuta e pericolosa: un conflitto che va ad influire negativamente sulla già satura condizione emotiva e anche sulla propria autostima e fiducia di superare la difficoltà.
Qualcuno inoltre rileva che l’aumento di aggressività da parte di certi bambini è concomitante con situazioni familiari che si sanno non rilassate: il bambino porta al nido e all’interno del suo gruppo di pari l’ansia per la famiglia in crisi, la paura di perdere l’amore di mamma e papà, il timore di essere abbandonato dagli affetti primari.
Questo scambio di esperienze risulta già di per sè “terapeutico” per il gruppo e le singole partecipanti alla formazione, in quanto le professioniste si sentono meno sole, capiscono che anche gli altri sono in difficoltà, e che l’imperizia professionale è temporanea e relativa ad una tensione dovuta ad un supposto giudizio negativo da parte delle colleghe, della responsabile, delle famiglie. La condivisione le fa sentire supportate, confortate e più fiduciose.
2. RABBIA E AGGRESSIVITA’: RIFLESSIONI A PARTIRE DALL’ESPERIENZA CONCRETA
Quando nel secondo incontro si entra nel merito di cosa sono in realtà rabbia e aggressività e si cerca di definirle teoricamente, emerge immediatamente che la percezione della carica esplosiva aggressiva è inconscia da parte dei bambini, è immotivata ad una prima e immediata valutazione, è contagiosa. Inoltre rabbia e aggressività sono collegate e quasi sempre associate. Si nota che i bambini sfogano su oggetti, persone e anche menti altrui le loro tensioni: ossia si nota che le azioni concrete dei bambini hanno effetti anche sull’umore e sulla mente degli altri, e che spesso non è solo il corpo ad essere bersaglio dell’offensiva ma proprio la mente dell’altro (è ovvio che ciò avviene in incognita del bambino stesso, come detto).
L’atteggiamento aggressivo, viene rilevato, può presentificarsi in tutti, adulti e bambini, ma nei bambini di 1-2 anni ha un carattere di spontaneità e naturalezza, ed è ancora non permeato dagli effetti del lavoro educativo; nell’adulto si presume sia stato addomesticato e coscientizzato.
Con grande sollievo viene osservato che, sebbene l’aggressività coincida spesso con un gesto irreversibile che danneggia l’altro, ha pur sempre un inizio, uno sviluppo e una soluzione finale.
Alla domanda, a questo punto, di cosa siano allora rabbia e aggresssvità, il gruppo cerca risposte all’interno delle proprie esperienze personali e professionali.
Viene rilevato che l’aggressività e la rabbia sono quasi indistinte, e si manifestano quando c’è un accumulo di cose non dette, non ricevute, mancate, quasi che il proprio bisogno di essere compreso, accolto e valorizzato sia inevaso e non corrisposto.
Un contributo portato nel gruppo ha definito l’aggressività come un “linguaggio scomposto” rispetto alle convenzioni e alle attese dell’ambiente, e il bambino, che sta iniziando il suo percorso educativo, non riesce ancora a corrispondere le aspettative della sua cerchia di vita, sia familiare sia istituzionale del nido, con un “linguaggio” corretto.
Sebbene ci sia una confusione iniziale tra comportamento e sentimento/emozione, quindi tra aggressività e rabbia, l’intervento del “linguaggio scomposto” aiuta il gruppo a riflettere anche sulla funzione di un nido: accompagnare educativamente il bambino nel percorso della scoperta e conoscenza della propria aggressività, e delle modalità di gestirla; un percorso che prevede il raggiungimento mai definitivo di equilibrio tra corpo e ragione.
Il gruppo rileva pertanto l’importanza di avere un quadro di riferimento teorico a cui attingere nel momento del bisogno, e anche pratico: un ventaglio di attività da proporre, da praticare nei momenti difficili, da utilizzare preventivamente l’esplosione degli eventi aggressivi.
3. LE STRATEGIE MESSE IN ATTO DALLE EDUCATRICI PER FRONTEGGIARE I FENOMENI DI AGGRESSIVITA’ DIFFUSA
Il terzo momento di incontro e riflessione, ha realizzato la condivisione delle strategie che finora ciascuna educatrice aveva messo in atto e aveva sperimentato, strategie di trattamento dei bambini aggressivi e dei gruppi rabbiosi.
I contributi hanno portato all’esclusione della repressione come supposta modalità di soluzione del problema; della provocazione della rabbia da parte dei bambini fra loro; della punizione dei bambini “colpevoli”. Si è condiviso piuttosto che abbracciare il bambino offeso e anche quello rabbioso dispensa calma e fiducia nel bambino, e pone l’educatrice in un rapporto di vicinanza col bambino e di accettazione di ciò che incresciosamente è accaduto: l’educatrice può così dimostrarsi comprensiva sia del dolore del gesto aggressivo ricevuto sia dello spavento o della soddisfazione del gesto offensivo elargito. Si è anche ipotizzato che l’educatrice possa proporre, come situazione giocosa e in un contesto del tutto controllato, comportamenti aggressivi tra bambini e verso se stessa (gioco del lupo, ad esempio) per dare la possibilità al bambino di sperimentare direttamente il modello di gestione della rabbia proposto dalla sua educatrice di fiducia. In tal modo, si è detto, il bambino inizia ad introiettare un modo di gestire l’aggressività fuori del momento di scoppio della propria rabbia: questo lo rende disponibile al gioco e alla percezione di come imparare a conoscere questa emozione così violenta.
Il giocattolo rubato viene sostituito con un altro per dare la possibilità ai contendenti di avere entrambi un oggetto che potranno scambiarsi; il gesto di rifiuto e intolleranza di un bambino verso un altro viene compensato da richieste, da parte dell’educatrice nei confronti del bambino, di abbracci e scuse verso l’offeso; il ripetersi di gesti aggressivi viene accompagnato da regole esplicitate, disegnate, cantate, praticate a livello comprensibile per il bambino. Si è inoltre condiviso la sperimentazione di strappare carta, scoppiare palloncini, buttarsi i pop-corn, saltare sui cuscinoni morbidi e buttarcisi sopra, abbattere torri di oggeti morbidi sovrapposti, o cadere dal dondolo: esse rappresentano proposte interessanti per prevenire e curare l’aggressività di gruppo per bambini di 12-36 mesi.
Tutto questo compone un patrimonio che da individuale e proprio di ciascuna educatrice, diventa collettivo e condiviso. L’arricchimento che ne scaturisce motiva il gruppo, e ogni professionista in particolare, ad impegnarsi maggiormente con i bambini e ad iniziare un processo di ricarica emotiva che migliora la propria competenza.
SIGNIFICATO POSITIVO DELL’AGGRESSIVITA’
Segue ora qualche riflessione teorica a proposito di queste due realtà psichiche e relazionali distinte e non sovrapponibili, l’aggressività e la rabbia, per conoscerle e riuscire a gestirle meglio.
Iniziamo a risalire all’origine etimologica della parola aggressività: deriva da ad-gredior, che significa “movimento in avanti”.
La definizione fa pensare a tutta prima a qualcosa di positivo; infatti rileviamo una certa quota di significato buono in questa parola: andare avanti è progredire, è sporgersi, è andare incontro, è farsi avanti.
Se ci fermiamo qui, al primo significato positivo, possiamo intravedere che per ogni essere umano è necessaria una percentuale di aggressività, ossia di capacità di farsi avanti per esplorare il mondo, per scoprire qualcosa di interessante e piacevole, e conoscere persone nuove, e anche per conservare la specie.
Il bambino piccolo deve avere molta aggressività positiva, e la deve utilizzare per il superamento delle sue tappe evolutive. Pensiamo ad esempio al camminare, ai primi passi e allo sforzo enorme che deve compiere per raggiungere l’obiettivo di staccarsi dalla mano sicura dell’adulto per avventurarsi fuori del suo contatto diretto.
Lo stesso sforzo è richiesto per la fase, ad esempio, dei NO, quando cioè il bambino deve far fronte agli ordini dell’adulto e deve poter contare su una propria idea e su una propria motivazione per raggiungere un proprio obiettivo.
Anche il masticare è un’azione aggressiva utile alla vita: attraverso i denti possiamo esercitare una grande forza sui cibi, e durante i pasti abbiamo bisogno di alternare cibi morbidi “riposanti” che non ci richiedono troppo impegno masticatorio a cibi “duri” su cui scaricare forza irruente e soddisfare così una certa elaborazione dell’aggressività insita in noi. Quando il bambino inizia ad usare la dentizione per masticare, rompere, spezzare, morsicare, raggiunge una tappa fondamentale della sua evoluzione, al pari dell’acquisizione della deambulazione: può iniziare a gustare cibi nuovi e dalla consistenza diversificata, e quindi appagare la sua curiosità sia di gusto sia di conoscenza dei diversi cibi e della loro composizione, ma sopratutto può esercitare forza e realizzare un soddisfacimento dell’aggressività latente.
Anche prima della dentizione, il bambino che si nutre al seno o al biberon deve riuscire ad esercitare una grande forza durante la suzione: se non ci riesce per qualche motivo è in gioco la sua sopravvivenza. Se proviamo a sostituire il capezzolo della madre al nostro dito nella bocca del neonato, potremo misurare la forza esercitata e scopriremo che tra labbra e lingua del bimbo si concentra una energia enorme, davvero straordinaria per un essere così piccolo.
La forza delle parti molli della bocca del bimbo, unite alla forza di ricercare il seno e di attaccarvisi, compongono l’insieme aggressivo vitale e primario della sopravvivenza umana.
Anche la voce rappresenta un atto aggressivo buono e utile al bambino: con i vagìti e i pianti, che sappiamo vigorosi e determinati, il bimbo richiama la madre a soccorrerlo quando ha fame o qualche disagio, e riesce a condizionare la madre e a richiederle di mettere in atto i suoi comportamenti amorevoli, necessari anch’essi alla propria sopravvivenza.
Anche quando il bambino usa la voce per “dialogare” con la madre grazie ai verseggiamenti e alla lallazione, usa una forza richiedente, in questo caso intrisa di dolcezza e allegria, che lo gratifica e gli permette di essere nutrito di scambio relazionale, di contatto di mente con la madre, di emozioni condivise. Tutto ciò forma la sua mente e pone i mattoni di base della sua organizzazione psichica.
Stiamo parlando dell’aspetto adattivo dell’aggressività, ossia della “grinta” necessaria a ciascuno di noi per adattarsi alle richieste della vita.
C’è un altro esempio di aggressività positiva, necessaria alla propria sopravvivenza e alla propria vita adattiva: quando l’embrione si installa nell’utero materno, in genere si parla di “annidamento”, di nicchia calda e morbida dove attaccarsi e iniziare a vivere.
In realtà l’embrione per potersi impiantare nel tessuto della madre, fa un’azione aggressiva e distruttiva dei tessuti: attraverso un’azione chimica scatenata dalle pareti della cellula originaria dell’embrione a contatto con l’endometrio, le pareti dell’utero sono “mangiate”, rosicchiate, scavate, demolite dal nuovo venuto, che si assicura un angolo buono di radicamento/attecchimento proprio con l’azione erosiva del territorio da conquistare.
La donna spesso si accorge di un sanguinamento all’inizio della gravidanza: si tratta della testimonianza dell’avvenuto insediamento dell’embrione. Questo è il primo atto di vita, è il gesto adattivo alla vita per eccellenza: se c’è aggressività (chimica in questo caso) la vita può avere inizio, se l’aggressività manca o è scarsa non può avere inizio l’annidamento dell’embrione e il suo futuro sviluppo.
A questo punto possiamo definire l’aggressività positiva come un movimento psichico necessario e vitale per la sopravvivenza degli umani; possiamo pur parlare di una “pulsione” fondamentale di cui è dotato l’uomo, come l’animale, per portare a termine obiettivi di adattamento sociale.
SIGNIFICATO NEGATIVO DELL’AGGRESSIVITA’
Come mai allora l’aggressività si conosce principalmente per la sua accezione negativa? Si sa che molto spesso, per poter raggiungere gli obiettivi adattativi che si diceva, l’individuo danneggia qualcuno, che, più forte di lui, ne mette a rischio la vita o l’espressione e realizzazione vitale.
L’istinto infatti porterebbe il soggetto ad attaccare il nemico, colui che è interpretato o temuto come danneggiatore o limitatore della nostra affermazione.
Questo attacco al nemico supposto può avere infinite forme, dalle semplici a relazione individuale, a quelle complesse a relazione organizzata; può avere infiniti àmbiti di espressione, dal pubblico al privato, dal civile al politico; può annoverare moltissimi autori di ogni età, ambiente sociale e culturale, religioso, politico.
Quando si parla di aggressività contro gli altri nell’ambito infantile, sappiamo che stiamo parlando di bambini che sono all’inizio della loro esperienza con la propria aggressività: la stanno sperimentando, conoscendo, esercitando, misurando sugli altri e su se stessi. Pertanto sono maldestri, incauti, del tutto naturali e spontanei circa l’espressione delle proprie forze interne, e, all’inizio, abbastanza inconsapevoli delle conseguenze e degli effetti delle proprie azioni aggressive.
Naturalmente, dunque, c’è una quota di significato negativo quando si parla di aggressività: di solito si intende l’azione danneggiante che un soggetto compie contro qualcun altro; quell’azione offensiva che tende ad annullare l’altro, a colpirlo per limitarlo, per toglierlo di mezzo o per ridurne il rischio di potere nocivo.
In questo caso si parla di atti lesivi su piani diversi: fisico, materiale, psicologico.
Tutte le azioni in queste diverse sfere sono lesive dell’integrità dell’altro, anche considerando le diverse gradazioni di intensità con cui sono espresse.
Gli atti lesivi inoltre si differenziano come diretti o indiretti, e hanno la caratteristica di voler colpire il destinatario (oggetto/persona) senza mediazioni o interferenze, oppure utilizzando una complessa manovra che include altre persone, altri oggetti, o situazioni favorenti.
AGGRESSIVITA’ ED EMOZIONI ASSOCIATE
Ma cosa fa scattare l’aggressività da protettiva di se stessi a offensiva degli altri? Quando, l’aggressività, da salutare e amica diventa pericolosa e distruttiva?
A questo punto dobbiamo iniziare a considerare che l’aggressività, come molti altri atteggiamenti e comportamenti umani, nonchè percezioni ed esperienze di ogni tipo, si associa sempre ad emozioni le più diverse.
Anche l’aggressività dunque si lega con alcune fondamentali emozioni: la rabbia è la più frequente, ma anche la gioia e la soddisfazione, l’angoscia, la disperazione, il desiderio di riuscita. Si comprende come l’aggressività, per la gamma di emozioni con cui si intreccia, può essere dannosa o utile, benefica o devastante. Infatti se si associa con la rabbia acquista un carattere di potenza distruttiva che andrà certo educata, incanalata e gestita nel migliore dei modi. La rabbia infatti è un accumulo di energia psichica molto potente, che rischia, se non ben condotta, di devastare se stessi e il prossimo.
Diversamente, se l’aggressività si unisce alla gioia e alla soddisfazione, si traduce nelle azioni che descrivevamo all’inizio, e che ci permettono di sopravvivere, di adattarci al mondo.
Considerando dunque il fenomeno “aggressività” nel suo complesso, possiamo dire che è una manifestazione naturale di affermazione di sé, sia nell’adulto che nel bambino: essa parte da una forza di base autoconservativa: il soggetto lavora per garantirsi la vita, e non, in primis, per distruggere l’altro.
Si trasforma in distruzione dell’altro in tutte le gradualità e forme possibili quando è associata all’emozione della rabbia: essa in particolare esplode quando il soggetto teme di perdere il proprio spazio vitale a causa di quello che considera il sopruso e l’intrusione dell’altro.
TIPI DISTINTIVI DI AGGRESSIVITA’
Pertanto possiamo distinguere 3 tipi di aggressività, in base allo scopo per cui si sviluppa:
◊ l’aggressività pro-sociale, che si sviluppa già a 2 anni: non vuole infliggere un danno a qualcuno o qualcosa, ma si prefigge di conquistare un obiettivo socialmente approvato, ossia reso legittimo e apprezzabile dal contesto culturale di appartenenza.
◊ L’aggressività re-attivaè quella invece che si manifesta in risposta ad uno stimolo, o complesso di stimoli, sentito come negativo dal soggetto che reagisce. Questa aggressività è impulsiva, esplosiva, incontrollata, è dominata da una grande paura che assume connotazioni di rabbia ingovernabile contro qualcuno. Il complesso di stimoli negativi può comprendere provocazioni e anche frustrazioni.
◊ L’aggressività pro-attiva infine si sviluppa con l’intenzionalità di ferire, distruggere, demolire l’altro considerato nemico, invasore del proprio spazio, minaccia della propria integrità. Questo tipo di aggressività è intenzionale, cognitiva, finalizzata, fredda, per niente empatica, e comprende una progettualità e una autorefenzialità.
Quest’ultima è tipica delle persone che presentano una struttura psicologica di fondo di tipo narcisistico, che sono caratterizzate maggiormente da scarsa empatia e incapacità a sentire emozioni.
La re-attiva è più tipica invece delle persone che poggiano su una struttura psicologica di tipo bordeline, dove il non controllo, l’impulsività e l’emotività intensi sono la base comune delle diverse tipologie di reazioni.
Per sviluppare l’aggressività pro-attiva ci vuole una buona opinione di sè, una buona capacità alla leadership per un controllo sociale sufficiente.
All’aggressività re-attiva concorrono diversi fattori: esperienze affettive negative e un accumulo di delusioni e frustrazioni, l’attribuzione all’altro di intenzioni ostili, e una tendenza all’isolamento sociale che non include il confronto e l’ascolto degli altri.
Per il comportamento pro-sociale sono necessari invece una buona attitudine empatica, una capacità di osservazione e conoscenza dell’ambiente che permetta di individuare le aree da promuovere e sviluppare: esse porteranno, secondo il soggetto pro-sociale, ad un beneficio collettivo, stimato come successo in sè ma anche come beneficio personale in termini (inconsci) di successo e potere, ricompensa e riconoscimento da parte degli altri.
LE AGGRESSIVITA’ NEI BAMBINI
Nei bambini l’atteggiamento pro-sociale è già presente ai 2 anni, così come l’utilizzo dei comportamenti aggressivi tra i pari è molto precoce.
Nei bambini, in particolare, le finalità perseguite sono principalmente tre:
◊ difendere le proprietà personali;
◊ stabilire una dominanza nel gruppo, anche per risolvere i conflitti;
◊ agire, a livello psicomotorio, tensioni psicologiche, coerenti con le diverse fasi di sviluppo.
I bambini presentano già fin da presto tutte le tre caratteristiche del comportamento aggressivo, anche se l’aggressività dei bambini è molto fisica e diretta, senza mediazioni di pensiero. Negli agìti, ossia nei comportamenti irriflessivi e dirompenti, si annida molta energia psichica sconosciuta al bambino stesso, ancora da lui non sperimentata, che spaventa molto spesso lo stesso piccolo autore degli agìti violenti.
È molto diversa la capacità di autoregolazione dei gesti aggressivi nei bambini di età precoce (prima dei due anni, ossia età del pre-linguaggio) dai bambini più grandicelli: questi ultimi, avendo sviluppato il linguaggio e quindi la capacità simbolica e di riflessione, hanno inziato un proficuo passaggio alla mentalizzazione degli agìti.
Questo comporta che il bambino può comprendere gli stati mentali altrui a partire da una pur rudimentale conoscenza dei propri.
Le funzioni mentali simboliche stanno diventando, a partire dai due anni, importanti: non sono ancora del tutto sufficienti però, in quanto la mentalizzazione sostiene la capacità acquisita del bambino di forme più raffinate di aggressività e ugualmente dannose, come ad esempio l’esclusione dal gruppo di un compagno non gradito, il pettegolezzo su di un amichetto a sua insaputa, l’esercizio di autorità e la distribuzione di ordini, e più tardi il giudizio e il criticismo. Bisognerà attendere l’età della nascita della moralità, per aspettarsi che le azioni contro gli altri, al fine della loro sopraffazione, siano regolate a partire dai principi di rispetto reciproco.
Già da piccoli, comunque, i bambini possono sviluppare l’empatia, ossia la capacità di provare dolore e gioia per il dolore e la gioia dell’altro, e possono essere educati al rispetto degli altri, alla prevenzione del dolore altrui, alla consolazione di chi soffre e alla solidarietà con questo.
Si può notare una differenza tra bambini e bambine piccoli nell’esercizio dell’aggressività precoce. In genere i bambini esercitano una aggressività pro-attiva diretta: scontro fisico e impulsività sono le caratteristiche salienti. I fattori di regolazione dei neurotrasmettitori e i fattori genetici possono considerarsi alla base di tali tendenze maschili. Per le bambine invece, il linguaggio precoce e la maggiore competenza sociale, favoriscono una migliore regolazione della pulsione aggressiva impulsiva, che infatti si esprime prioritariamente in una aggressività di tipo pro-attivo indiretta. Le bambine sono infatti più strategiche, più complessivamente capaci di osservare l’ambiente e di entrarvi per manipolarlo e cambiarlo a proprio vantaggio.
PROCESSI FISIOLOGICI ALLA BASE DELL’AGGRESSIVITA’
Ma quali sono i processi fisiologici che regolano questo complesso meccanismo di regolazione dell’aggressività?
Sembra che l’ipotalamo, nel centro dell’encefalo, sia la sede dell’aggressività primitiva, mentre il sistema limbico, l’amigdala e l’ippocampo siano i nuclei neurali che regolano la collera complessiva, corredata di emozione rabbiosa forte.
I nuclei citati, se opportunamente stimolati in laboratorio su animali, ci fanno capire che quelle sono le sedi privilegiate che si attivano, anche nell’uomo, quando in un soggetto scoppia l’aggressività.
Allora, ci si potrà chiedere, come facciamo a regolare la nostra aggressività e a diminuire la rabbiosità affinchè riusciamo a non danneggiare l’altro andando incontro alle sanzioni sociali previste?
Fortunatamente siamo dotati di un sistema neuronale che regola l’aggressività: esso si trova nella corteccia prefrontale e in quella frontale mediale. Utilizzando queste parti noi riusciamo ad essere soggetti sociali e civili, e possiamo convivere con altri esseri umani, senza causare effetti irreparabili della nostra rabbia. Quando un soggetto inizia a saper gestire la rabbia, è il segnale che sta iniziando a far funzionare le aree deputate al controllo di essa. La nostra corteccia infatti, collegata da reti neuronali alle aree deputate all’aggressività, abbassa il livello di rabbia, la limita e la calma, e noi possiamo risolvere i conflitti diversamente dall’uso di agìti fatali.
Pertanto un ambiente educativo come un nido dell’infanzia che si occupa di sviluppare comportamenti socialmente accettabili, dovrà fare i conti non soltanto con gli scoppi improvvisi di rabbia aggressiva fra i bambini, ma anche con i sistemi di etero ed autoregolazione della rabbia stessa, puntando sullo sviluppo della corteccia e delle sue funzioni.
Tali funzioni sono numerose e tutte fondamentali per lo sviluppo dell’individuo. Dal buon funzionamento della corteccia prefrontale e frontale dipende infatti il buon funzionamento del linguaggio, dei ragionamenti, della negoziazione, della manipolazione dell’avversario, della valutazione delle circostanze, dell’inibizione delle emozioni inadeguate, o della pianificazione e programmazione, della regolazione dell’attenzione, e molte altre ancora.
Oltre alla corteccia frontale e prefrontale mediana, siamo dotati anche di un altro sistema neurofisiologico fondamentale, e di cui si sta studiando approfonditamente da alcuni anni. Si è scoperto infatti che siamo dotati di “neuroni specchio”, ossia di una classe di neuroni che si attivano quando un essere animale o umano non solo compie un’azione, ma quando osserva la stessa azione compiuta da altri soggetti.
Ad esempio, se un esecutore mostra la lingua ad un cucciolo di scimmia o umano, questo fa lo stesso gesto per imitazione, sulla base di una attivazione dei propri neuroni, gli stessi dell’adulto esecutore.
Più precisamente: nel momento in cui osserva l’azione, il cucciolo ha le stesse attivazioni neurali di quelle dell’adulto esecutore che sta osservando. Si è potuto cioè constatare che i neuroni attivati dall’autore durante un’esecuzione di azione sono gli stessi che sono attivati dall’osservatore dell’azione medesima.
Si ritiene che questa, dei neuroni specchio, sia una delle scoperte più importanti nell’ambito delle neuroscienze a partire dagli ultimi dieci anni.
Si pensa che questi neuroni possano essere importanti per la comprensione delle azioni di altre persone e quindi per l’apprendimento attraverso l’imitazione. Il sistema specchio si ritiene possa simulare le azioni osservate e perciò contribuire ad una teoria della conoscenza.
Si è sperimentato sull’uomo che la corteccia motoria si attiva quando un soggetto osserva semplicemente, senza cioè muoversi, le azioni e i movimenti altrui.
Non solo: si è scoperto che gli stessi neuroni specchio si attivano anche in concomitanza di azioni non viste direttamente ma ad esempio udite: i neuroni specchio si desume siano utili per rappresentare concetti astratti di azioni non percepite direttamente con la vista.
Nell’uomo il sistema specchio è più complesso e ramificato che nella scimmia, vivente usato per lo studio in laboratorio di questo importante apparato.
L’uomo cioè è capace di codificare, grazie ai neuroni specchio, sia il tipo di azione sia la sequenza dei movimenti di cui essa è composta.
Il ruolo primario del sistema specchio è quello di far comprendere all’individuo le azioni altrui nella loro sequenza e complessità.
Ma andiamo ancora oltre: la capacità umana e animale si spinge alla previsione dell’azione che sta per compiersi: ad esempio, l’autore afferra una mela, e può o portarla alla bocca o infilarla in una tazza. Da piccoli segnali l’osservatore prevede quale sarà la conclusione dell’azione, e i suoi neuroni specchio si attivano prima che l’azione dell’altro si compia, dimostrando così che l’individuo può prevedere correttamente cosa l’altro farà.
In sintesi, il sistema neurale specchio ha la funzione anche di predire le azioni seguenti a quella osservata in un altro soggetto e quindi mettono in contatto l’individuo osservante con le intenzioni originarie dell’autore delle azioni osservate.
Infine, siccome si è notato che nell’uomo le aree cerebrali interessate durante un’azione non sono solo quelle motorie, si è scoperto che l’uomo può comprendere e prevedere, oltre le azioni, anche le emozioni associate dell’altro, e può quindi riprodurle su di sè.
Anche un bambino infatti riconosce le emozioni di gioia o di rabbia o di tristezza nell’altro, proprio grazie ad una attivazione delle stesse aree neuronali che si attivano specularmente in sé.
Ormai è assodato che tale sistema ha tutto il potenziale bio-sociale interattivo che precede l’epoca della comunicazione linguistica, e che permette ad ognuno di noi un meccanismo di comprensione delle azioni, e delle emozioni associate, altrui.
In sintesi è possibile
◊ apprendere tramite l’imitazione e la simulazione del comportamento altrui,
◊ prevedere l’evoluzione delle azioni inziate e contattare le intenzioni di chi si osserva e di chi sta in relazione con noi,
◊ percepire e codificare istantaneamente, oltre che prevedere, le emozioni altrui a livello viscero-motorio pre-linguistico e quindi ottenere la “partecipazione empatica”.
Un effetto sociale di questo complesso meccanismo individuale e collettivo risiede nel fatto che quando esprimiamo uno stato d’animo positivo o negativo contribuiamo a modificare l’umore di coloro che vengono in contatto con noi e si predispongono ad imitarci in maniera pre-consapevole. Questo fatto ci pone in una dimensione di responsabilità sociale, tanto più importante per gli educatori che sono guardati e imitati e studiati dai loro soggetti affidati.
IMPEGNO EDUCATIVO
Assodato pertanto che i neuroni specchio ci aiutano a relazionarci con gli altri, sarà dunque molto importante aiutare e accompagnare i bambini piccoli a sviluppare comportamenti collaborativi e affettuosi, per contrastare l’impulso alla distruttività e la paura conseguente, che si esprime con l’attacco e la fuga.
Se le reazioni naturali di base tipiche dell’aggressività negativa sono, come dicevamo precedentemente, la rabbia e la paura, regolate dai nuclei neuronali dell’amigdala, dell’ippocampo e dell’ipotalamo, sappiamo che gli antidoti, regolati dalla corteccia frontale e prefrontale, sono principlamente il linguaggio e il pensiero riflessivo astratto e simbolico.
Se l’attività sociale è regolata, come abbiano visto poc’anzi, dai neuroni specchio, conosciamo ora anche un altro antidoto alla rabbia distruttiva dell’altro: l’empatia su base fisiologica e quindi connaturata e “in dotazione” a tutti gli individui.
Sono risorse preziose, queste ultime e le altre descritte in precedenza: esse vanno tutte coltivate fin dalla più tenera età e vanno sviluppate con professionalità da parte del personale competente di scuole nido, materne ed elementari. Lo scopo è la prevenzione di atti pericolosi alla collettività, ma anche lo sviluppo precoce di strutture di personalità collaborative e rispettose dell’altro.
In conclusione, sulla base di queste conoscenze l’educatore si porrà di fronte al suo compito istituzionale educativo con maggiore fiducia: avrà coscienza che la rabbia è una emozione non solo distruttiva e anzi ricca di potenzialità riparative.
L’AGGRESSIVITA’ E I SUOI PROCESSI DI INSORGENZA ED ESPRESSIVI
L’autoregolazione del bambino è molto difficile, in quanto è un soggetto ancora molto vicino alla iperattività e agli agìti, nonchè all’impulsività, tipici dell’età.
Possiamo seguire o tracciare un percorso dinamico dell’insorgenza dell’aggressività nel bambino (e nell’adulto, per affinità).
Principalmente sono tre i percorsi possibili.
1. Il bambino ha un desiderio, quindi accumula energia positiva per realizzarlo, viene frustrato, l’energia accumulata e preparata resta inutilizzata per la realizzazione dello scopo, e quindi deve essere riorientata. Il bambino seguirà tre strategie:
◊ ci riprova e usa costanza fino a volte all’ossessività;
◊ sviluppa una lotta dura con la fonte della frustrazione, e utilizza opposizione fino alla maniacalità;
◊ diminuisce le aspettative, e quindi le iniziative esplorative mettendo in atto comportamenti depressivi.
2. Un altro percorso possibile è che il bambino ha un desiderio ma parallelamente ha una previsione di fallimento, in quanto l’imposizione dell’ostacolo gli è familiare: infatti essa può essere costante o anche violenta. In questo caso il bambino metterà in atto una fuga ansiosa e depressiva, oppure una lotta continua, desiderata in sè e non per ottenere la realizzazione del desiderio. Avrà pertanto una predisposizione a non saper negoziare soluzioni ai conflitti.
3. Infine un altro percorso possibile può essere quello per cui un bambino ha un desiderio ma esso è parallelo alla difficoltà di riconoscerlo, nominarlo e comunicarlo. Ossia il desiderio resta in ombra, non riconosciuto e viene abbandonato non realizzato. Questo implodere di energie vitali che restano avvizzite al fondo dell’individuo risulta molto pericoloso per lo sviluppo futuro del soggetto, al pari, se non di più, dell’esplosione violenta all’esterno delle spinte rabbiose. Tale situazione può avere origine dall’isolamento emotivo di un bambino che viva in ambiente sofferente a livello di relazioni primarie e di attaccamento alle figure originarie.
PROPOSTE STRATEGICHE AD EDUCATORI DI NIDO
Che fare? si chiederebbe a questo punto un educatore, quali i rimedi più efficaci?
Si suppone a questo punto che la calma e un tono tranquillo anche in presenza di scoppi di aggressività siano di esempio e di stimolo ai bambini. Sopratutto possono essere di modello per stimolare nei bambini la fiducia che i conflitti possono essere affrontati e risolti. La voce ferma di chi dirige la soluzione del problema mette il bambino nella condizione di poter essere contenuto nei suoi impulsi, oltre che guidato fuori della crisi conflittuale.
Sarà molto importante accogliere la difficoltà del bambino, ascoltare cosa sia successo nel caso in cui egli sia già in grado di esprimersi in qualche modo, non solo verbalmente.
Anche se può sembrare paradossale, è importante che l’adulto, in un primo tempo, empatizzi con la modalità espressiva aggressiva, e che faccia sentire al bambino che comprende la sua difficoltà di esprimersi diversamente dall’agìto, senza colpevolizzazioni e rimproveri. Infatti il bambino di due anni sta faticosamente lottando con le spinte aggressive a colorazione rabbiosa, e non ha ancora sviluppato pienamente la corteccia frontale e prefrontale, che lo aiuterà a modulare le reazioni furiose, inaccettate dall’adulto.
Possiede invece già tutto il suo corredo di neuroni specchio che si attivano meccanicamente, la cui azione e presenza può dare fiducia all’educatore, oltre che un sentiero orientativo.
Inoltre, talvolta, per poter poi arrivare a sciogliere i nodi aggressivi con calma e ragionando col bambino, può essere opportuno spostare subito l’attenzione su un altro oggetto o situazione, in modo che lo sconvolgimento emotivo della rabbia scemi e svanisca, e lasci il posto alla riconciliazione in un secondo momento, e posteriormente alla comprensione delle cose accadute.
Se invece l’adulto accentua la non-calma o le risposte violente, oppure attiva azioni coercitive sul bambino per renderlo docile, o critica addirittura il suo comportamento negativo, allora sarà facile che il bambino recepisca che l’autoregolazione è impossibile: egli stesso darà l’avvio ad un conflitto interpersonale per il comando e il potere, o per evacuare la disperazione dell’abbandono.
Può dunque essere utile avere ben presente che le azioni adulte maggiormente efficaci di fronte all’aggressività incontrollabile di un bambino, dannosa verso altri bambini della comunità di nido o scuola materna, sono quelle mediatrici, e possono avere l’obiettivo stimolante di
◊ comprendere e rispettare le regole di convivenza,
◊ assumere il punto di vista altrui,
◊ affrontare i conflitti con coraggio senza occultarli,
◊ trovare una soluzione positiva,
◊ negoziare con i mezzi e le modalità specifiche dell’età,
◊ sviluppare abilità sociali come ad esempio la cooperazione fra i bambini,
◊ valorizzare l’aspetto pro-sociale dell’aggressività, specialmente nei bambini più aggressivi,
◊ potenziare l’autocontrollo.
Certamente l’adulto non dovrà favorire la provocazione del conflitto da parte di bambini arrabbiati, e neanche le reazioni violente dei destinatari, per non creare un circolo vizioso.
L’educatore dovrà essere attento al fatto che i bambini non interpretino il comportamento altrui solo come dannoso, offensivo o umiliante, ma che ricerchino gli aspetti positivi dei compagni, o individuino la propria parte giocata nell’interazione conflittuale, che può avere stimolato la rabbia nell’altro; è sconsigliabile inoltre che sia tollerata o passata in silenzio la violazione di regole o l’adozione di comportamenti sanzionabili, o che non sia rilevato l’isolamento di bambini, impauriti dal comportamento aggressivo di altri nei loro confronti: in questo caso si tratta di bambini con scarse competenze sociali di autoprotezione, rifiutati dai compagni, vittimizzati, scartati.
Infine è condiviso il fatto che l’adozione ripetuta e costante di comportamenti sanzionatori non porta ad una maturazione delle risorse preventive e risolutive del comportamento aggressivo da parte del bambino, ma inducono all’obbedienza, alla paura, al distacco del bambino dall’adulto, alla ribellione, e alla perdita del contatto affettuoso.
Invece molto efficaci, al posto delle azioni punitive, possono essere le richieste, da parte dell’adulto al bambino, di atti riparativi: essi daranno fiato al riconoscimento del danno, alla capacità di prevedere le conseguenze di un gesto, alla percezione empatica di un dolore inferto ad un altro: in una parola gli atti riparativi saranno benéfici rispetto all’autoregolazione della rabbia.
L’AGGRESSIVITA’ E I SENTIMENTI CHE SUSCITA NELL’ADULTO EDUCATORE
Ora sarebbe utile avvicinarsi all’educatore e scoprire quali siano i suoi sentimenti circa il diffondersi di comportamenti aggressivi e rabbiosi all’interno del loro gruppo di bambini, di cui sono responsabili e di cui devono rendere conto ai genitori.
Spesso c’è ansia, un senso di inefficacia personale, una destabilizzazione delle proprie capacità di contenimento, un senso di frustrazione fino alla disistima personale. Gli educatori rischiano di essere essi stessi “contagiati” dall’aggressività dei bambini, sopratutto quando questa è diffusa. In questo caso è facile sentirsi in pericolo di essere autori involontari di forme le più diverse, anche inconsce, di espulsioni e punizioni di bambini.
L’educatore che, prima o poi, avrà certamente a che fare con la gestione della rabbia altrui, singola o collettiva, è bene che provi a dare egli stesso uno o più nomi al sentimento di rabbia che pervade sé, in modo da aiutare, quando ce ne sarà necessità, il bambino in difficoltà che non saprà riconoscere la sua spinta interna e che non saprà da dove gli proviene.
Si può infatti articolare il sentimento di rabbia generico in angoscia, in dolore, o paura dell’abbandono e del distacco fino al dolore del tradimento, in solitudine e non-comunicazione, fino al sentirsi annullati perchè non capiti e ascoltati, quindi svalutati. Spesso la rabbia porta anche insoddisfazione, frustrazione, impotenza, senso di colpa.
Come si può desumere, la rabbia è un sentimento possente, che mobilita molte energie, è lo specchio di una grande forza vitale e potente della natura.
Come si è detto è addirittura una situazione necessaria da non negare, da non mortificare, da riconoscere nel suo diritto di esistere. È infatti la manifestazione naturale, sia per il bambino che per l’adulto, della pulsione di autoconservazione, la quale, prima che assuma una delle forme distruttive dell’altro, dovrà essere addomesticata e incanalata.
Nel bambino, che non ha ancora un linguaggio articolato e una coscienza di sé differenziata, dovrà essere dall’adulto interpretata e decodificata come segnale di allarme, una sorta di “linguaggio grezzo” per comunicare insoddisfazione e disagio personale e sociale.
La rabbia aggressiva ci spaventa, la vorremmo cacciare, comprimere, dimenticare, allontanare, diminuire: sono tentativi di gestirla in qualche modo, simili a quelli per governare un’auto che sbanda, e li sentiamo necessari in quanto sappiamo che, lasciata a se stessa, la rabbia aggressiva può portare a conseguenze fatali.
Sappiamo però che dobbiamo darle una via d’uscita, possibilmente non dannosa per sé e per gli altri, in quanto è un efficace ponte verso gli altri, ponte che sta cercando la modalità adeguata per portare il proprio messaggio vitale.
Sappiamo, e chi gestisce la propria e l’altrui aggressività conflittuale ben lo ha presente, che per fortuna l’azione rabbiosa ha un inizio, una evoluzione espansiva e di sfogo, una conclusione risolutiva. Questo può tranquillizzare l’educatore, e puo dargli la fiducia di un intervento provvidenziale.
RECUPERIAMO POSITIVAMENTE L’ENERGIA RACCHIUSA NELLA RABBIA
Come dunque possiamo recuperare questa energia vitale ma temporaneamente distruttiva, in uno sbocco costruttivo e non repressivo?
Innanzi tutto la si può riconoscere, rispettare, la si può distinguere dai semplici “capricci” da bambini (termine comodo all’adulto disimpegnato e infastidito dalle espressioni infantili), e dai “pretesti”, interpretazione adulta degli atteggiamenti aggressivi del bambino, che stimola la repressione, e che ha caratterizzato un mondo culturale oramai superato.
L’adulto sarà dunque chiamato piuttosto a contenerla, a tollerarla mentalmente, ad ascoltarla, a capirla e non giudicarla, e ad imparare/insegnare una negoziazione che non annulli la “pulsione” naturale ma che le dia una giusta forma.
L’adulto, educatore o genitore, potrà farsi presenza concreta e mentale per il bambino, potrà rappresentare una sicurezza esterna, per lui che non ha ancora una sicurezza interiorizzata e che teme di essere abbandonato in preda alla furia impulsiva rabbiosa, propria ed altrui, e quindi ha paura di morire.
Quali concrete proposte per la vita al nido? Quali attenzioni devono avere le educatrici circa il gruppo di bambini?
Occorre che la struttura nido permetta una organizzazione tale fra gli educatori che, all’apparire della crisi aggressiva, un educatore possa dedicarsi completamente al superamento della crisi diffusa nel gruppo, anche per evitare danni ai bambini presi di mira da chi è più irruente.
Il gruppo quindi dovrebbe essere gestito temporaneamente da un educatore esterno, o da quello che segue un gruppo parallelo, e l’educatore chiamato a risolvere la crisi potrà dedicarsi interamente ai bambini coinvolti. Naturalmente sarà sua cura essere efficace e non dilungarsi, sia per non appesantire emotivamente la situazione con il sottogruppo implicato, sia per non abbandonare il resto del gruppo nelle mani del collega, che si sarà trovato nel frattempo a dover gestire d’improvviso un numero superiore di bambini.
Occorrerà allora ascoltare i bambini e le loro emozioni, riconoscere la rabbia nominandola e introducendola attivamente nel contesto, parlando con calma e pacatezza: “so che sei arrabbiato, picchiando e mordendo sfoghi la tua rabbia e ci fai capire che hai qualcosa da dire o da chiedere al tuo amichetto, ma se picchi e mordi non ottieni ciò che vuoi, lo farai invece piangere e scappare da te. Prova a parlargli, prova a chiedergli cosa vuoi, prova a dire cosa vuoi da lui, quale è il problema”!
Eventualmente, se l’ira è molto accesa, il bambino sarà invitato ad occuparsi temporaneamente di altro, oppure, se riesce a contenere la rabbia, potrà continuare a focalizzarsi, insieme all’educatore, sul conflitto, e poi, a rabbia scemata, potrà essere invitato a chiedere scusa al compagno in conflitto (spesso bisogna stimolare scuse reciproche), e a fare pace, con un abbraccio, con un bacio, e restituendo il gioco sottratto, o stipulando una negoziazione.
Nel caso in cui riesca a seguire questo modello di intervento, l’educatore stimola ed accompagna un processo importantissimo:
◊ riconosce l’emozione del bambino,
◊ gliela fa conoscere perchè la nomina,
◊ gli fa capire con la calma che la rabbia si può gestire,
◊ gli comunica che esiste la regola “vietato danneggiare gli altri”,
◊ gli offre il modello risolutivo che è meglio parlare e chiarire che picchiare, ossia gli propone di sostituire gradualmente il pensiero all’agìto,
◊ gli propone l’azione riparativa, sia di contatto con l’altro, sia attraverso l’oggetto del contendere che sarà scambiato o sostituito o prestato o regalato.
È ottima cosa approvare calorosamente i comportamenti adeguati dei bambini, e far loro sentire che va proprio bene se fanno qualcosa di accettabile; ascoltare inoltre quando parlano e quando vogliono esprimere qualcosa; in generale è bene far esercitare molto i bambini nel linguaggio, in quanto, come abbiamo notato, è il linguaggio, e quindi lo sviluppo della capacità simbolica, ad equilibrare gli agìti, specie violenti e rabbiosi.
In generale è opportuno e utile creare dei momenti di silenzio, giocoso certo, durante le attività della giornata, come ad esempio formare delle oasi di calma e di astensione dal “fare” e dal “relazionarsi”, che permettono al bambino di ricaricarsi, di rigenerarsi.
Anche tenere basso il rumore di fondo può essere utile, in quanto permette a ciascuno di poter esistere e apparire sulla scena collettiva, col pianto, col riso, con le parole più o meno articolate, con le azioni.
Spesso organizzare un gioco alternativo in prossimità delle scene di violenza diffusa è utile a spostare l’attenzione, a canalizzare diversamente le energie, ad interessare il gruppo su contenuti ed aree differenti.
Se poi gli agìti si esprimono con i morsi, si può richiamare i bambini ad osservare i propri denti allo specchio e abbinarci un gioco o una storia o una canzone, oppure si può tenere pronti frutti o verdure duri (carote, finocchi, mele) da mordere in caso di scene con morsi.
Il nido infine potrebbe organizzare il gioco euristico, sorta di insieme di sacchetti tutti contenenti oggetti similari, da aprire e guardare, manipolare e confrontare: questo gioco crea una buona concentrazione creativa nei bambini, e aiuta a canalizzare le energie psichiche creative, ossia quelle aggressive positive, nella scoperta, nell’indagine, nella valutazione attenta degli oggetti.
PROBLEMI CORRELATI ALLA GESTIONE DELL’AGGRESSIVITA’ FRA BAMBINI DEL NIDO
Poniamo ora attenzione ad alcuni problemi che possono emergere quando ci si occupa dei diversi protagonisti della scena violenta:
1°- se l’aggressore diventa l’oggetto dell’attenzione dell’educatore c’è il rischio o l’eventuale effetto che l’aggressore possa sentirsi al centro dell’attenzione e che in un secondo momento usi la stessa modalità aggressiva per attirare l’attenzione dell’adulto su di sé, come se avesse ricevuto un vero rinforzo!
2°- La capacità imitativa, connaturata all’uomo e particolarmente facile per il bambino piccolo, porta al fenomeno del contagio all’interno di un gruppo. Quindi gli agìti aggressivi potranno essere replicati in quanto imitati da bambini che non li hanno ancora praticati, oppure temuti oltre misura da coloro che li hanno subìti già in precedenza.
3°- Se i bambini aggressivi sono colpevolizzati o repressi da parte degli adulti, è facile che il bambino costruisca un’immagine di sé cattiva e temuta, e che inizi ad entrare nel tunnel della depressione o in quello della ribellione fine a se stessa.
4°- Anche l’attenzione alla vittima genera dei rischi e delle possibili conseguenze: l’aggressore potrebbe essere invidioso dell’attenzione che l’altro attira su di sé, e ciò potrebbe costituire una facile spinta alla ripetizione degli atti violenti, in questo caso vendicativi.
UN ESEMPIO DI COMPORTAMENTO AGGRESSIVO’: IL MORSO
Una particolare attenzione richiama l’aggressività rabbiosa che si esprime a morsi. Il morso è forse più contagioso di altri gesti aggressivi, richiama maggiore ansia da parte degli educatori stessi, è una modalità immediata e fulminea, non riesce ad essere prevista dall’adulto responsabile di un gruppo di bambini, ed è dannosa più di altre modalità aggressive.
Il morso fa uso della bocca, organo della sopravvivenza primaria, è il primo che si usa alla nascita, e concentra gli istinti più vitali e originari; i denti sono gli organi di aggressività positiva, deputati a masticare, ossia a trasformare i cibi “grezzi” in cibi digeribili e assimilabili.
Nella situazione di morsi fra bambini, però i denti sono trasformati in organi distruttivi, usati in modalità inaccettabili socialmente e dall’adulto in particolare, e quindi diventano veicolo di riprovazione e rifiuto.
È necessario pertanto fare attenzione all’ansia che genera il morso: negli altri bambini, negli educatori stessi come detto, nei genitori dell’aggredito che rivendicherà giustizia, spiegazioni e garanzia di non-ripetizione del fatto, e in quelli dell’aggressore, che si sentiranno colpevoli e responsabili nonchè impotenti, o spesso punitivi verso il proprio bambino.
Sarà necessario pertanto ben riflettere su come porre la questione alle famiglie, su come affrontare la questione sia con i genitori interessati sia con quelli del nido intero che temeranno probabilmente che il fenomeno si diffonda anche a scapito della sicurezza del loro figlio.
Importante sarà certo non colpevolizzare i bambini e le famiglie, illustrare piuttosto cosa si è fatto per affrontare l’aggressività diffusa nel gruppo, e per riparare l’accaduto; si spiegherà cosa si è capito circa le possibili cause, riferite al singolo bambino o al gruppo intero, e questo tranquillizza in genere i genitori sopratutto se ciò è unito alla comunicazione dei provvedimenti adottati, sia preventivi sia appunto riparativi.
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